No

Di api, arnie e miele.

Di api, arnie e miele.
Il ruolo del Comizio Agrario nello sviluppo dell’apicoltura monregalese.

Photo: Rinuccia Marabotto

ATTILIO IANNIELLO*

Dai nidi selvatici di api alle arnie.
L’interesse degli uomini per il miele è antico quanto la storia dell’umanità. I nostri più antichi progenitori ben presto conoscono la dolcezza di questo prodotto e se lo procurano andando a cercare nidi di api nei boschi, nei tronchi degli alberi e tra le rocce. La raccolta avviene intingendo nel favo un bastone[1] e ritirandolo grondante di miele. Troviamo questo gesto descritto anche nella Bibbia. Nel I Libro di Samuele leggiamo infatti che Gionata, figlio del re Saul, «… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (I Sam. 14,27).
Una prima testimonianza iconografica di questa cerca del miele ci viene offerta da un dipinto, probabilmente databile intorno al 7000 a.C., eseguito su una parete di una grotta (Cueva de la Aragna) della Spagna orientale[2] . Nella pittura rupestre si può vedere una figura umana, arrampicatasi fino al nido di api grazie a delle liane, nell’atto di prendere con una mano dei favi di miele mentre nell’altra tiene un recipiente dove metterli per trasportarli. Intorno vengono rappresentate alcune api in volo.
Nel corso dei secoli l’interesse per il miele porta ai primi allevamenti di api in arnie molto semplici, costruite con vari materiali naturali come tronchi, creta e paglia.
Per molto tempo poi non c’è una particolare evoluzione né nelle conoscenze scientifiche sulle api e la loro vita né nelle tecniche di allevamento delle stesse. Il lavoro apistico procede praticamente invariato per secoli: in primavera l’apicoltore cattura degli sciami nei boschi e li mette nelle arnie; quando queste ultime, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, sono diventate piene di miele, uccide per asfissia le api, bruciando dello zolfo, prende i favi e separa quindi il prezioso prodotto dalla cera filtrandolo.
Si ha un inizio di ricerche scientifiche a partire dal XVI secolo con studiosi come lo spagnolo Luis Méndez de Torres (Tratado breve de la cultivación y cura de las colmenas, Madrid, 1586), gli inglesi Charles Butler (The Feminine Monarchie, Oxford, 1609) e Richard Remnant (A Discource of Historie of Bees, London, 1637); a queste si unisce la ricerca di un’arnia che permetta di non uccidere le api per raccogliere il miele. Dopo vari tentativi la soluzione arriva nel 1851 con la scoperta da parte di Lorenzo Lorraine Langstroth (1810-1895), pastore protestante di Filadelfia (U.S.A.) e appassionato apicoltore, del cosiddetto “spazio d’ape”, ossia uno spazio vuoto di 9,5 millimetri lasciato nell’arnia tra soffitta e portafavi e tra i montanti del telaino, spazio dove le api non costruivano né favi né ponti di favi. Il telaio quindi diventa mobile e non è necessario distruggere i favi per raccogliere i prodotti.
Questa innovazione poco per volta si diffonde anche in Europa. In Italia giunge verso la fine del XIX secolo modificata da Charles Dadant (1817 – 1902), un apicoltore franco-americano.

Charles Dadant

Il Comizio Agrario di Mondovì.
Nella biblioteca dell’attuale Comizio Agrario sorto nel maggio del 1867 si trovano alcuni testi appartenuti al primo Comizio Agrario di Mondovì operante tra il 1843 e il 1848. Tra questi Il nuovo dizionario universale di agricoltura di Francesco Gera, stampato in Venezia nel 1837. Il Dizionario, nel V volume, dedica all’ape e alla produzione di miele un’ottantina di pagine presentando non solo la fisiologia dell’insetto ma anche l’utilità del suo allevamento. Su quest’ultimo aspetto cita Della pubblica utilità di Ludovico Antonio Muratori, auspicando che i governanti approvino regolamenti «acciocché tanto i padroni, quanto i villani in ciascun podere tenessero pecchie [api] e sapessero la maniera di governarle e custodirle»[3] .
La necessità di organizzare lezioni ed istituzioni atte a di[fondere l’apicoltura razionale tra gli agricoltori, e non solamente tra poche persone generalmente di classe agiata, è all’ordine del giorno e tema di discussione anche nel corso di congressi internazionali. Nel corso del Congresso degli Apicoltori tenutosi a Norimberga nel settembre del 1869, per esempio, si afferma:

«Quali mezzi e vie batter si devono, acciò l’apicoltura divenga un bene comune al popolo?
Il metodo a favi mobili alla Dzierzon[4] ha fatto sì che l’apicoltura fece un gran progresso, tuttavia non è
raro che l’uomo comune difficilmente abbandoni l’antico sistema; e lo si può compatire non conoscendo il
nuovo. L’arnia a favi mobili non basta da sola a mellificare, il metodo Dzierzon vuole essere ben studiato,
imparato.
[…] Si hanno ancora de’ paesi, ove l’apicoltura o totalmente dorme, o si segue il “così faceva mio padre”.
Occorre del tempo acciò generalmente si diffonda una perfetta apicoltura razionale…»[5]

E tempo occorre anche nel Monregalese, infatti nella Relazione sullo stato dell’agricoltura nel circondario, riferita alla campagna agraria del 1870, il Comizio Agrario scrive a proposito dell’apicoltura:

«Assai trascurata è da noi quest’arte così semplice e così utile. Le arnie a favo mobile sono qui sconosciute
e l’estrazione della cera e del miele si fa tuttora mercé la soffocazione delle api. S’ignora generalmente
come si possa avere il prodotto senza uccidere così barbaramente ed inconsultamente le industriose
produttrici. Converrebbe quindi assai la formazione di una società apistica, e dovrebbe il Comizio stesso
farsene l’iniziatore. L’alveare è una piccola ricchezza, che ogni poderello si potrebbe procacciare con
minima spesa».[6]

Inizia quindi una importante attività di informazione da parte del Comizio il quale, come prima cosa, acquista due manuali di apicoltura per la propria biblioteca circolare l’Istruzione popolare di apicoltura razionale pratica e Catechismo per la pratica dell’apicoltura, entrambi scritti da Flaminio Barbieri e pubblicati nel 1870 e nel 1871 dall’editore Guigoni di Milano.

 
Alcuni corsi sono organizzati in diversi centri del circondario monregalese ottenendo anche qualche positivo risultato come dimostra la presenza di apicoltori nell’Esposizione provinciale Agraria, Industriale, Artistica tenutasi a Mondovì dall’1 al 20 settembre 1878[7] .
Il Comizio Agrario nonostante l’impegno profuso si rende conto che per intervenire in tutto il circondario occorre avere la collaborazione di persone che vivano in ogni più piccola borgata del territorio, ed un manuale di agricoltura adatto ad essere distribuito in ogni dove. A quest’ultimo pensa Felice Garelli, che nel 1899 dà alle stampe Nozioni di agricoltura per le Scuole Rurali, un testo che avrà un notevole successo e distribuzione tanto che verrà ristampato ogni anno fino agli anni Trenta del Novecento. Le Nozioni di agricoltura del Garelli entrano a far parte dei libri scolastici degli studenti dell’Istituto Magistrale e del Seminario di Mondovì. Maestri e sacerdoti studiano quindi le basi dell’agricoltura razionale e diventano di fatto preziosi collaboratori del Comizio Agrario.
Il manuale agrario ha al suo interno alcune pagine dedicate all’apicoltura:

«Le api sono insetti utilissimi e amici dell’uomo, che non reca loro molestia.
Ogni casa di contadino dovrebbe avere un apiario, perché da esso può ricavare un prodotto notevole di miele
e di cera, senza fatica e senza spesa. È ammirabile l’industria delle api nel fabbricarsi i favi o le celle
in cui depongono il miele.
E non meno singolare è l’organizzazione della famiglia delle api. Questa è formata di un’ape regina, di
molti maschi, detti fuchi o pecchioni, e di moltissime operaie.
La regina non ha altro ufficio che di far uova tutto l’anno, salvo i mesi d’inverno, e di deporle nelle
celle. Tutto il lavoro, la ricerca dell’alimento, la costruzione dei favi, la produzione del miele, la
nettezza della casa è fatto dalle operaie. I maschi mangiano e vanno a spasso, quando fa bel tempo; le
operaie, stanche di nutrire questi fannulloni, nell’estate li ammazzano. Quando la famiglia diventa troppo
numerosa e non ha più posto sufficiente nella casa, e ciò accade tra maggio e giugno, una parte, guidata
dalla regina, emigra, o sciama, lasciandovi il resto della famiglia sotto il comando di un’altra regina.
La nuova colonia si ferma ordinariamente su gli alberi vicini; si appende in forma di grappolo ad un ramo,
attaccandosi le api l’una all’altra colle zampe. Perché si arresti in luogo vicino, si usa stordirla
battendo padelle e casseruole. Per raccogliere questo sciame, si pone sotto esso un’arnia rovesciata e
spalmata internamente di miele. Chi fa questa operazione deve tener coperta la faccia, il collo e le mani,
per ripararsi dalle punture delle api.
Generalmente chi vuole allevare le api costruisce loro la casa, che dicesi arnia od alveare, servendosi di
un tronco cavo di pioppo, di salcio, di radice. Ma è questo un cattivo sistema di arnie, che obbliga a far
morire le api ogni volta che si raccoglie il miele.
Ora si costruiscono arnie che permettono di togliere i favi senza recar danno alle api; dette perciò arnie a
favo mobile. Di queste ogni allevatore di api dovrebbe provvedere; la piccola spesa è in breve rimborsata
dal maggior prodotto che si ottiene di miele. Infatti con queste arnie le api, non dovendo ricostruire i
favi, in poco tempo li riempiono di nuovo miele; e si hanno due raccolti in un anno.
La smelatura, ossia l’estrazione del miele, si faceva anticamente ponendo i favi a sgocciolare sovra un
reticolato di vimini; ora si compie più rapida e completa con lo smelatore, il quale consiste in una cassa
di legno o di metallo girevole intorno a un asse verticale. Ponendo in essa i favi e imprimendo alla
macchina un movimento di rotazione ne schizza fuori il miele. I favi rimangono intatti, e si rimettono a
posto nell’arnia.
Il miele si estrae d’estate quando le api sciamano. Non si deve togliere tutto, ma lasciarne quanto basti a
nutrire le api durante l’inverno. Che se nella fredda stagione la provvista di viveri venisse a mancare,
bisogna rifornirne le api affinché non muoiano di fame.
La cera si estrae dai favi vecchi o guasti, mettendoli in una caldaia d’acqua riscaldata all’ebullizione. La
cera, a misura che fonde, viene sull’acqua e si raccoglie.
L’esposizione più adatta per l’apiario è quella di levante o di ponente; il luogo dev’essere tranquillo,
lontano dai rumori, in prossimità dell’acqua, e attorniato da prati e da piante che producano fiori.
Gli alveari si debbono riparare dalle intemperie e dai raggi troppo cocenti del sole, con un piccolo tetto
di legno o di paglia.
È necessaria una rigorosa nettezza tutt’attorno alle arnie, per tener lontane le formiche e i rospi, che
possono danneggiarle. Ma i nemici più terribili delle api sono gli insetti, e particolarmente la tarma.
Questa larva di una piccola farfalla, se arriva a penetrare nei favi, li distrugge interamente. Il rimedio
più efficace consiste nel togliere la parte del favo attaccata dalle tarme, o, se non basta, nel togliere
l’alveare infetto, per salvare gli altri».[8]

Don Giacomo Angeleri

Il Novecento.
Gli inizi XX secolo vedono una grande promozione dell’apicoltura sia a livello nazionale sia a livello locale. In Piemonte nel 1910 si costituisce la Federazione Apistica Piemontese promossa in particolare dal professor Carlo Passerini e da don Giacomo Angeleri[9] . Quest’ultimo appartiene a quella schiera di sacerdoti formatasi nei seminari in un periodo di notevole cambiamento di clima in ambito ecclesiale, dovuto al dibattito e alle speranze portate dall’Enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII. Passione evangelica, spirito scientifico di ricerca, desiderio di migliorare la qualità della vita delle classi subalterne, in particolar modo del mondo contadino, sia dal punto di vista economico che morale, animano don Angeleri facendolo diventare in pochi anni non solo un esperto allevatore e studioso di api ma un divulgatore instancabile dell’apicoltura razionale andando di provincia in provincia a organizzare corsi e a tenere conferenze.
La Federazione Apistica Piemontese nasce con l’obiettivo di migliorare l’apicoltura avvalendosi dei seguenti mezzi: «a) pubblicazioni, conferenze, scuole pratiche di apicoltura, cattedre ambulanti, congressi regionali, esposizioni temporanee e permanenti, controllo chimico della cera, consulenza legale su tutti gli argomenti che riguardano l’apicoltura; b) cooperazione per la fabbricazione dei materiali occorrenti all’industria delle api; c) cooperazione per la vendita del miele e della cera»[10] Nei suoi interventi don Angeleri non solo impartisce consigli sui vari provvedimenti da prendersi stagione dopo stagione nell’alveare, ma spinge anche gli ascoltatori all’uso dell’arnia “italica Carlini”:

«La casa dell’ape – l’arnia – deve essere comoda e, come l’esperienza di tanti anni ha dimostrato, essere
gradita all’ape e più redditizia. L’arnia italiana, che è poi una derivazione dell’arnia Dadant-Blatt, è
l’arnia che meglio risponde a questi requisiti; non bisogna variare né misure, né numero di telaini.
Adottare altri tipi od altre misure che non sono poi vendibili, è fare un danno a sé e alla apicoltura».[11]

Nel Cuneese il Ministero dell’Agricoltura eleva il 13 febbraio 1902 l’apiario del Santuario della Madonna dei Fiori di Bra a Regio Osservatorio Apistico[12] retto da don Filippo Alardo.
Quest’ultimo chiama alla collaborazione i Comizi Agrari e le cattedre ambulanti.
Tra i Comizi della provincia che maggiormente rispondono a don Alardo il più attivo è quello di Mondovì che nella persona del suo cattedratico ambulante Alessandro Gioda[13] opererà in modo diffuso per migliorare le condizioni dell’apicoltura del circondario monregalese. In ogni paese e borgata Alessandro Gioda, in corsi serali o domenicali al mattino prima o dopo la Messa, presenta l’apicoltura anche con l’ausilio di dagherrotipi da proiettare e poster di elegante fattura in tela e cartoncino. In questo lavoro Gioda viene affiancato dal suo assistente il dottor Riccardo Ricci e da numerosi soci tra cui alcuni parroci.
Uno dei periodi di maggior impegno apistico in Mondovì è il primo dopoguerra.
L’11 agosto 1917 il Consiglio Direttivo del Comizio Agrario delibera di stampare un volumetto di istruzioni apistiche da donare ai soci. La scelta cade su Apicoltura popolare a sistema semifisso con l’arnia monregalese, scritto dal sacerdote Francesco Deninotti e stampato nel 1918 dalla Tipografia del Collegio degli Artigianelli in Torino.
Il testo tiene conto della realtà della maggioranza dei contadini del circondario. Tolti pochi imprenditori che hanno un reddito discreto e buone conoscenze scientifiche agrarie, la realtà rurale del territorio è fatta di molte aziende di piccole, se non piccolissime, dimensioni con redditi di sussistenza. Poiché soprattutto a queste ultime è rivolta l’attenzione del Comizio Agrario per migliorarne le condizioni economiche, sociali e culturali, don Francesco Deninotti propone una apicoltura popolare attenta a non stravolgere del tutto le antiche pratiche apistiche ma facendole progredire poco per volta a cominciare dal creare le condizioni affinché le api non debbano essere soppresse ogni anno per raccogliere il miele. Inoltre le arnie razionali sul modello Dadant-Blatt risultano troppo costose e complicate da usarsi, quindi l’arnia monregalese si presenta come una realizzazione mediana tra il bugno villico e le arnie moderne:

«Con ciò non è già da temere che essi [i contadini] abbiano da cambiare, lì su due piedi, la inveterata
usanza di coltivare le api a loro modo, o da gettare al fuoco i loro vecchi e tradizionali bugni per
mettersi a fare subito dell’apicoltura moderna con arnie nuove e perfezionate. Tutt’altro. Nessuna persona
di criterio potrebbe dare loro un simile consiglio…
[…] All’antichissima e rudimentale maniera di coltivare le api, e agli stessi bugni tradizionali che non
metteremo fuori uso, noi applicheremo alcuni facili e semplici miglioramenti, che basteranno a duplicare e
anche triplicare il prodotto, senza alterare sensibilmente le abitudini e senza incontrare maggiori spese».
[14]

L’apicoltura deve essere popolare secondo don Francesco Deninotti sia perché torna a vantaggio di tutte le coltivazioni e quindi di tutti i contadini sia perché una importante produzione di miele giova ad un Paese stremato dalla Prima guerra mondiale:

«L’apicoltura, che ormai si è ridotta ad un’industria di privilegio per alcune persone colte, facoltose, o
disoccupate, deve ritornare a rifiorire in mezzo ai contadini, perché questa è un’industria strettamente
collegata colla coltivazione dei campi e specialmente alla frutticoltura.
[…] In Italia, nel bel paese, nel giardino dell’Europa, nella terra dei fiori, ove è feracissimo il suolo,
dolce il clima, belle, laboriose e mansuete le api, quivi si subisce ancora l’onta di richiedere all’estero,
ed ogni anno, tonnellate e tonnellate di miele, che poi viene pagato a decine di milioni in tanto oro
sonante. Questi milioni che ogni anno valicano le Alpi, od oltrepassano l’Atlantico, sono i primi che si
possono e si debbono risparmiare… Cessi quindi, una volta finalmente, l’onta d’essere noi tributari a quelle
nazioni a cui dovremmo noi somministrare in abbondanza il nostro ricercato miele».[15]

Don Francesco Deninotti inizia una collaborazione con il periodico del Comizio Agrario “L’Agricoltore Monregalese”. Dal numero del 22 marzo 1918 il sacerdote scrive parecchi articoli di apicoltura presentando in forma semplice tutti i lavori da farsi nell’apiario. A cominciare dal più importante per chi ha ancora arnie villiche:

«Mentre il Comizio cerca di sviluppare… l’allevamento razionale delle api nelle arnie a telaini, non
dimentica però tutti coloro che nelle campagne non sanno e non possono dedicarsi all’apicoltura con arnie
moderne.
A tutti costoro ricorda perciò il consiglio più volte dato: preparatevi una cassetta da mettere a momento
opportuno (seconda metà di maggio) sopra il nido delle api.
Allora al nido dovrà togliersi il soffitto, così da dare libero passaggio nella cassetta; entro la quale le
api potranno portare quel miele di cui l’agricoltore si varrà senza uccidere le api; perché nell’autunno
sarà sufficiente togliere la cassetta melario e ricoprire il nido col suo soffitto e tutto sarà a posto.
Ricordate però che per avere miele nella cassetta melario è indispensabile provvedere questa di favi già
costruiti, altrimenti il risultato è scarso e molte volte è nullo addirittura».[16]

La rinnovata attenzione verso l’apicoltura messa in atto dal Comizio Agrario ha un ulteriore impulso nella primavera del 1919 con la costituzione del Consorzio Incremento Apicoltura, l’istituzione di osservatori apistici e l’organizzazione della prima “Settimana apistica” dal 13 al 17 maggio 1919.

Smelatore

Il Consorzio Incremento Apicoltura ha come obiettivo l’acquisto collettivo di materiale apistico dalle arnie sia quella monregalese sia la Dadant-Blatt, ai telaini, dai fogli cerei alle maschere in rete metallica, dai vasetti in vetro per miele agli affumicatori. Inoltre mette a disposizione dei soci una decina di smelatori.
Degli apicoltori esperti, in qualità di osservatori apistici del Comizio Agrario, si recano due volte all’anno a visitare gli apiari dei soci in modo da dare corrette informazioni per l’allevamento delle api. Al lavoro degli osservatori si aggiunge anche il “Giro apistico autunnale”[17], che consiste in esercitazioni pratiche svolte nelle varie località del circondario monregalese.
Dal 13 al 17 maggio del 1919 intorno e dentro il palazzo del Comizio Agrario situato nella piazza del mercato in Mondovì Breo una serie di iniziative con mostre di attrezzi per apicoltura e degustazione e vendita di miele creano la “Settimana apistica”. Questa è inaugurata nel pomeriggio del 13 maggio nella sala di lettura del Comizio con un convegno:

«Il 13 maggio, martedì, a ore 14 si terrà un modesto convegno di apicoltori fra gli aderenti al Consorzio di
apicoltura del Comizio Agrario e fra quanti si interessano all’apicoltura, i quali tutti potranno
liberamente parteciparvi.
Il signor Oreggia [Vittorio] di San Remo tratterà delle sezioni e lune di miele;
il rev. Don Deninotti [Francesco] della sciamatura e sue conseguenze presso gli alveari sciamanti;
il dottor Ricci [Riccardo] della regina in rapporto alla produzione dell’alveare.
Temi interessantissimi, ai quali seguiranno liberamente discussione, osservazioni, proposte che i convenuti
credessero avere a fare».[18]

La “Settimana apistica” apre una nuova stagione di interesse verso l’apicoltura da parte dei contadini monregalesi. Tuttavia nella seconda metà degli anni Venti l’allevamento delle api ritorna ad essere, con alcune eccezioni, una pratica poco diffusa. Da un lato a partire dal 1925 la “battaglia del grano” assorbe tutte le energie del mondo rurale, dall’altro il regime fascista mal sopporta che ci siano in attività delle forme associative autonome e locali, e centralizza quindi i vari consorzi compresi quelli apistici.
Il 7 settembre 1929 il Comizio Agrario organizza un convegno nell’ambito delle manifestazioni agrarie che affiancano i festeggiamenti della Natività di Maria.

«Gli apicoltori ebbero il loro convegno nella mattinata del 7 settembre per udire tre buone relazioni. Una
era affidata al maestro don Eula e mirava a porre in evidenza la necessità che gli apicoltori stessi
cerchino di intensificare il consumo del miele con una attiva propaganda nelle stesse loro zone di
produzione. Certo si è che l’uso del miele è ancora molto limitato, sicché necessita muovere dal principio e
prima ancora di pensare alla città, si deve pensare ad organizzare la vendita al minuto anche nei minori
centri rurali.
La seconda relazione era affidata al rev. Don Ballauri il quale illustrò i principi ai quali l’apicoltore
deve attenersi per avere famiglie robuste e numerose; memore che solo le famiglie numerose sono produttive.
Egli fissò i suoi concetti su questi punti; arnie Dadant-Blatt; uso dei fogli cerei; regine giovani,
sciamatura ridotta.
Terzo fu il prof. Remondino che illustrò magistralmente la legge del 1925 ed il regolamento 1927 sulla
apicoltura, ponendo bene in evidenza i vantaggi che vi sarebbero a costituire un consorzio apistico
provinciale come contemplato dalla legge; con le funzioni di organizzazione, propaganda, repressione delle
malattie che appunto la legge prevede».[19]

Carlo Remondino parla del Regio Decreto Legislativo n. 2079 del 23 ottobre 1925 “Provvedimenti per la difesa dell’apicoltura”. Del resto nel Cuneese si costituisce la Sezione Provinciale degli Apicoltori con presidente Attilio Bonino, il quale ha la carica di segretario federale del partito fascista. Anche nel Monregalese quindi gli apicoltori vengono inseriti nell’istituzione presieduta dal Bonino.
Intanto il Comizio Agrario continua a promuovere l’apicoltura tra i suoi soci e questi ultimi alla fine degli anni Trenta decidono di ritrovare una loro autonomia.
Ne “L’Agricoltore Monregalese” del 14 dicembre 1940 si legge:

«Alcuni apicoltori hanno preso l’iniziativa di costituire in Mondovì un gruppo locale della sezione
apicoltura dell’Unione provinciale agricoltori. Il Comizio invita gli apicoltori ad aderire: perché è certo
che dal nuovo gruppo di apicoltori potranno avere notevoli vantaggi».

Nonostante la II guerra mondiale sia ormai in corso, nel gennaio 1941 il gruppo locale di apicoltori si unisce ed elegge la propria direzione nelle persone di Sebastiano Ferrero, Garibaldi Rossetti, Pietro Comino e Vincenzo Gasco: «Il gruppo apicoltori intende agevolare agli aderenti la consegna del melittosio e promuovere lo sviluppo della istruzione apistica»[20] .
Per tenere fede a quanto sottoscritto dai primi cinquanta aderenti al Gruppo apicoltori la direzione organizza un corso di apicoltura per la primavera di quell’anno. Il 5 aprile 1941 alle ore 10 nella sala di lettura del Comizio Agrario gli apicoltori monregalesi assistono numerosi alla prima lezione. A tenerla è il massimo esperto apicoltore dell’epoca: don Giacomo Angeleri.

«Sabato 5 corr. ha avuto luogo nel salone del Comizio Agrario l’adunata degli apicoltori monregalesi per
sentire la parola dell’illustre apicoltore piemontese don Giacomo Angeleri, direttore de “L’Apicoltore
moderno”, organo ufficiale della S.A.I., direttore dell’Istituto di apicoltura moderna in Torino, autore di
numerose pubblicazioni apistiche e pratico valentissimo (300 alveari). Il salone del Comizio era al completo
per l’intervento totalitario degli apicoltori della zona…
Premesso che una parte notevole degli apicoltori erano stati presentati personalmente al conferenziere
dall’apicoltore ing. Ferrero, il rev. Don Angeleri è senz’altro entrato in argomento. Diamo delle
trattazioni svolte un brevissimo riassunto.
Fare dell’apicoltura è fare opera eminentemente autarchica per il prodotto che difficilmente si potrebbe
surrogare.
L’apicoltura rende all’apicoltore a seconda delle cure più o meno intelligenti che l’apicoltore dà alle api.
Per avere del miele non basta avere tanti alveari, se in questi le api non stanno a loro agio e patiscono
per freddo, caldo, umido o peggio se muoiono per fame.
La nutrizione delle api in determinate circostanze è indispensabile se non si vuole in certe annate vedere
decimato l’apiario: sempre utile da noi la nutrizione stimolante.
Bisogna evitare la consanguineità; gli alveari nei quali non si cambiano le regine prelevandole da apiari
distanti, deperiscono e finiranno per esaurirsi. Egualmente per non far degenerare la razza occorre cambiare
i favi vecchi e non decapitare i fuchi, ma allevarli invece in apposito alveare per conservare al massimo
possibile la razza. Mettete dei fogli cerei interi e solidi nei telaini per avere il minimo possibile di
fuchi negli altri alveari.
Le api sciamano dalle arnie razionali quando nella loro casa trovano degli inconvenienti a cui non possono
porre rimedio. L’apicoltore deve ricercare questi inconvenienti e porvi riparo se vuole evitare la
sciamatura. In un apiario la sciamatura non dovrebbe avvenire in una misura superiore al 2%.
L’apicoltura villica dovrebbe essere protetta in quanto rappresenta il vivaio di api per l’apicoltura
razionale. I prezzi alti raggiunti dagli alveari, stanno appunto in rapporto alla mancanza di alveari
villici.
La casa dell’ape – l’arnia – deve essere comoda e come l’esperienza di tanti anni ha dimostrato, essere
gradita all’ape e più redditizia. L’arnia italiana, che è poi una derivazione dell’arnia Dadant-Blatt, è
l’arnia che meglio risponde a questi requisiti; non bisogna variare né misure, né numero di telaini.
Adottare altri tipi od altre misure, che non sono poi vendibili, è fare un danno a sé ed alla apicoltura.
L’alveare deve essere frequentemente visitato nella buona stagione e tanto più frequentemente quanto più vi
è importazione di polline o miele. Quando le api non importano, l’alveare non occorre sia disturbato.
Ultimata la conferenza sono stati posti da numerosi apicoltori dei quesiti al conferenziere, ai quali esso
ha risposto brillantemente e persuasivamente».[21]

La presenza a Mondovì di don Angeleri attira l’attenzione di molti contadini locali verso il gruppo di apicoltori del Comizio, tanto che alla fine dell’estate del ’41 gli iscritti sono 83 con una dotazione di 864 alveari. Dal Comizio Agrario gli apicoltori possono avere in uso «lo smelatore, la sceratrice e la facettatrice per produzione casalinga di piccole quantità di fogli cerei. Il noleggio di queste macchine è (per ciascuna) di 1 lira al giorno per i soci e di 4 lire per i non soci»[22].

Macchina “Rietsche” per fabbricazione fogli cerei.

Sceratrice solare

Il Gruppo apicoltori vedendo crescere di mese in mese gli iscritti, decide di riprendere la tradizione della “Giornata del miele” stabilendola per il sabato 6 dicembre 1941.

«Tutti gli apicoltori che intendono parteciparvi sono invitati a presentare una settimana prima i saggi e
campioni di miele e cera, il miele possibilmente in vasi di vetro, dichiarando la qualità e la specialità.
La cera dovrà essere pulita, chiara, in blocchetti rotondi. Si gradirebbe per dare maggior risalto ed
interesse alla mostra che gli apicoltori esponessero oltre al miele anche tutti quegli apparecchi di loro
invenzione che riguardano l’apicoltura. Ogni pezzo dovrà portare il nome dell’apicoltore ed il prezzo di
vendita».[23]

La “Giornata del miele”, che per la cronaca dura una intera settimana, ha un enorme successo di pubblico e di vendita[24]. La promozione dell’apicoltura fatta dal Comizio Agrario dà i suoi frutti tanto che all’inizio del 1942 gli apicoltori iscritti al Gruppo di Mondovì sono 107 con 1085 alveari; «di questi 80 sono formati da arnie villiche, e 5 da arnie monregalesi; il rimanente migliaio da arnie razionali italiane»[25]. Il dato è ancora più interessante se si pensa che nel 1941 il totale di apicoltori dell’intera provincia di Cuneo iscritti ad una qualche organizzazione apistica era di circa trecento persone. Un terzo degli apicoltori della provincia è, quindi, nel Monregalese.
Alla fine del 1942 il numero degli iscritti al Gruppo sale a 237 persone con 2044 alveari.
Dal 1941 al 1943 in quasi tutti i numeri de “L’Agricoltore Monregalese” l’ingegnere Sebastiano Ferrero pubblica articoli divulgativi sull’apicoltura.
Dalla fine del 1943 alla fine della Seconda guerra mondiale e alla Liberazione, a causa della situazione bellica e della conseguente cessazione della pubblicazione de “L’Agricoltore Monregalese” per carenza di carta, non si hanno notizie del Gruppo di apicoltori.
Con la ripresa dell’attività ordinaria del Comizio Agrario nell’autunno del 1945 e con la nuova stampa de “L’Agricoltore Monregalese” a partire dal gennaio 1946 si promuove nuovamente l’apicoltura. Lo stesso presidente del Comizio Agrario Alarico Bruzzone si fa carico di mantenere in vita la tradizionale attenzione dell’Ente Agrario per l’allevamento delle api. Il primo corso di apicoltura del secondo dopoguerra viene svolto nel pomeriggio della domenica 21 luglio 1946 presso la cascina Magliano, situata tra il concentrico di Mondovì e la frazione Merlo[26]; un altro, per principianti, il giovedì 19 dicembre 1946 presso la sede del Comizio.
Intanto gli apicoltori si riorganizzano a livello provinciale. Il monregalese Sebastiano Ferrero a nome del Gruppo apicoltori partecipa alla costituzione del Consorzio provinciale fra apicoltori l’8 ottobre 1946 in Cuneo.
Il secondo dopoguerra porta dei cambiamenti radicali nel mondo rurale; un numero crescente di giovani abbandona i campi per cercare miglior vita nelle cittadine e città industriali. Per certi versi l’apicoltura viene nuovamente relegata a settore agricolo meno importante e si dovrà aspettare parecchi decenni per rivedere nascere un interesse sempre più diffuso per l’ape, i suoi prodotti e la sua funzione nell’ecosistema.
Dalla fine della guerra ad oggi, come si evince dalle sue pubblicazioni e dai suoi verbali, il Comizio Agrario mantiene viva con periodici corsi e conferenze l’arte di allevare api, un’arte che come abbiamo cercato di dimostrare in questo breve lavoro ha nobili e profonde radici in Mondovì e nel Monregalese.

* Attilio Ianniello è direttore del Comizio Agrario di Mondovì

Il breve saggio si può scaricare nella versione pdf: Di api, arnie e miele

NOTE

[1] Secondo alcuni studiosi questo gesto nasceva dall’imitazione di quanto facevano alcuni animali: «Come è confermato da recenti studi di specialisti del comportamento animale, dei primati come il gorilla, i babbuini e gli scimpanzé usano degli utensili, particolarmente il bastone. L’animale si provvede di un lungo ramo, lo infila nel foro in cui si trova il nido d’api e lo ritira ricoperto di miele», in Marchenay Philippe, L’uomo e l’ape, Bologna, 1986, p. 65.
[2] Cfr. Marchenay Philippe, op. cit., p. 65; Crane Eva, L’apicoltura nel mondo: passato e presente, Grout Roy, L’ape e l’arnia, Bologna, 1981, pp. 1-2.
[3] Cfr. Gera Francesco, Il nuovo dizionario universale di agricoltura, Venezia, 1837, pag. 23.
[4] Johann Dzierzon (Lowkowice 1811 – Lowkowice 1906), entomologo polacco; studioso delle api, costruì diversi apiari sperimentali, ideando nel 1838 l’alveare “mobile-pettine”.
[5] Cfr. Balsamo Crivelli Michele, Relazione del sedicesimo Congresso generale ambulante degli Apicoltori alemanni, tenutosi l’anno passato in settembre nei giorni 14, 15 e 16, in Norimberga, in “Bollettino del Comizio Agrario del Circondario di Mondovì” n. 11 – novembre 1870.
[6] Cfr. Apicoltura, in “Bollettino del Comizio Agrario del Circondario di Mondovì” n. 6-7-8 – giugno-luglio-agosto 1871.
[7] «Ben rappresentata è l’apicoltura dal Caranti, dal Catalano, dal Rabino e dai fratelli Perotti», in Esposizione provinciale a Mondovì, in “Gazzetta di Mondovì” del 10 ottobre 1878.
[8] Cfr. Garelli Felice, Nozioni di agricoltura per le Scuole Rurali, Firenze, 1899.
[9] Nato a Gamalero in provincia di Alessandria nel 1877, don Giacomo Angeleri si trasferisce ben presto a Reaglie dove vive e lavora fino al 1957, anno della sua morte. Organizzatore instancabile di incontri sia a livello regionale che nazionale, durante il XV Congresso nazionale degli Apicoltori, tenutosi a Roma nel novembre del 1947, don Angeleri ottiene che la delegazione piemontese sia ricevuta dal papa Pio XII che in quell’occasione pronuncia un discorso in cui sottolinea l’importante ruolo morale, sociale e religioso del lavoro apistico. Dirige la rivista “L’Apicoltore moderno” dal 1920 al 1957 cercando anche con questo strumento di favorire la crescita tecnica, culturale ed economica degli allevatori di api piemontesi. Alla sua morte lascia come testimonianza del suo impegno il libro “Cinquant’anni con le api e gli apicoltori” e i laboratori scientifici la “Stazione di apicoltura alpina” di Pragelato e la “Scuola di apicoltura” di Reaglie. La sorella di don Giacomo, Maria Grazia Angeleri, dona poi queste due ultime istituzioni all’Università di Torino che a partire dal 1969 le unisce sotto la denominazione Osservatorio Universitario di Apicoltura “Don Giacomo Angeleri”.
[10] Cfr. Statuto della Federazione Apistica Piemontese, in “L’Apicoltore moderno”, n. 2 – febbraio 1910.
[11] Così don Angeleri in una lezione agli apicoltori di Mondovì; cfr. Apicoltura – La prima lezione a Mondovì, in “L’Agricoltore monregalese”, n. 7 – aprile 1941.
[12] Si veda, per esempio: Istituzione di un Osservatorio Governativo Apistico in Bra per la provincia di Cuneo, in “Eco della Zizzola” del 7 marzo 1902.
[13] Cfr. Ianniello Attilio, Il Cattedratico Ambulante del Comizio Agrario di Mondovì. Alessandro Gioda: una biografia, Acqui Terme, 2017.
[14] Cfr. Deninotti Francesco, Apicoltura popolare a sistema semifisso con l’arnia monregalese, Torino, 1918, pp. 7ss.
[15] Cfr. Deninotti Francesco, Apicoltura – Il miele ed il bilancio economico del paese, in “L’Agricoltore monregalese”, n. 10 del 18 aprile 1918.
[16] Cfr. Non uccidete le api! Preparatevi i melari!, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 8 del 27 marzo 1919.
[17] Per esempio nel 1920 Vittorio Oreggia, un abile apicoltore di San Remo (IM) partecipa al “Giro apistico autunnale” con questo programma: «Ottobre. 4 lunedì: ore 10 a Mondovì al Comizio Agrario; ore 15 a Monastero presso il rev. Don G. Bella. 5 martedì: ore 8 a Villanova Roracco presso il rev. Don R. garelli; ore 14 a Morozzo presso il rev. Don S. Garelli. 6 mercoledì: ore 8 a S. Albano presso il rev. M. Caula; ore 14 a Bene Vagienna (Isola) presso la Baronessa d’Isola. 7 giovedì: ore 8 a Bene Vagienna capoluogo presso la signorina Dompè; ore 13 a Narzole S. Nazario presso il rev. Don A. Cane; ore 16 a Narzole capoluogo presso l’Asilo Infantile. 8 venerdì: ore 9 a Mombasiglio presso Giacomo Briatore; ore 14 a Bagnasco presso il maestro G. Rebuffo. 9 sabato: ore 10,30 a Garessio Mursecco, presso il rev. Don G.B. Faroppa», in “L’Agricoltore Monregalese” n. 17 del 28 settembre 1920.
[18] Cfr. Convegni agricoli, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 11 del 7 maggio 1919.
[19] Cfr. Gli apicoltori, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 17-18 del 23 settembre 1929.
[20] Cfr. Il gruppo apicoltori, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 2 del 31 gennaio 1941.
[21] Cfr. La prima lezione a Mondovì, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 7 del 19 aprile 1941.
[22] Cfr. Gli apicoltori, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 18-19 del 13 ottobre 1941.
[23] Cfr. Giornata del miele, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 21-22 del 29 novembre 1941.
[24] «La giornata del miele che è durata oltre una settimana, ha visto il miele ricercatissimo. Tutto il miele messo in vendita è stato venduto a dei prezzi elevati con soddisfazione degli apicoltori che vi hanno preso parte.», cfr. La giornata del miele, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 1 del 24 gennaio 1942.
[25] Cfr. Notizie generali, in “L’Agricoltore Monregalese” n. 1 del 24 gennaio 1942.
[26] Cfr. Lezioni di apicoltura, in “Gazzetta di Mondovì” del 20 luglio 1946.

 

 

No comments

You can be the first one to leave a comment.

Post a Comment