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Pamparato a tavola

Il Presidente del Comizio Agrario saluta i presenti

Venerdì 11 gennaio 2019 alle ore 17,15, in collaborazione con l’Accademia della Castagna Bianca di Mondovì, il Comizio Agrario presso la sua sede in Piazza Ellero n. 45 a Mondovì, ha presentato il libro di Beppe Prato “Pamparato a tavola”. L’autore ha dialogato con Guido Viale dell’Accademia della Castagna Bianca di Mondovì, Mauro Servetti e Giacomo Lissignoli.
Beppe Prato, è nato a Pamparato dove per oltre cinquant’anni è stato cuoco dell’Albergo delle Alpi. Nel volume pubblicato per la casa editrice “Araba Fenice” Beppe Prato ha raccolto pensieri, riflessioni, storia, il tutto legato dalle ricette della cucina tradizionale delle nostre vallate monregalesi.

La sala “Alessandro Gioda” gremita di amici di Beppe Prato (in piedi sullo sfondo il Presidente Pier Franco Blengini e il direttore Attilio Ianniello

Si legge nell’Introduzione del libro:
«Non intendo scrivere un ricettario ordinario… ma dare semplicemente voce ai nostri prodotti agricoli e non, sperimentati accuratamente negli anni trascorsi tra stufe e fornelli.
[…] Il ritorno alle zolle mi pare la rivelazione più attendibile, per rendere l’idea di cosa possa scorrere nel piccolo volume “Pamparato a tavola”.
[…] Vivere in questa periferia del mondo, dove l’affascinante natura fa da cornice al millenario paese che ha mantenuto intatte caratteristiche e tradizioni secolari è un sogno veramente realizzato. Ed io che su questa terra ci sono nato e cresciuto, non posso assolutamente nascondere gli stretti legami che ad essa mi legano. E oggi da vecchio ragazzo, con una cinquantina di anni dedicati alla cucina, provo ancora compiacimento nello spiattellare una fattibile cibaria, purché sia di spontanea inventiva.
Le castagne, il grano saraceno, i funghi, i bovini, i formaggi d’alpeggio, gli animali da cortile, la frutta, i prodotti agresti e selvatici dei nostri dintorni, costituiscono parte della nostra autonomia…
Inoltre, gli artigianali biscotti di Pamparato, passati ormai alla storia per aver compiuto pressappoco il giro del mondo, incorniciano gloriosamente il paese del pane, simboleggiato dal cane con la pagnotta in bocca: habent panem paratum».

Guido Viale

Dopo i saluti del Presidente del Comizio Agrario Pier Franco Blengini e del direttore Attilio Ianniello, Guido Viale ha esordito con le seguenti parole:
«Beppe Prato l’ho conosciuto nel ’95, dopo la tragica alluvione, quando mi son inaspettatamente trovato ad esser assessore a Pamparato, un paese che mio padre citava spesso come paradigmatico del declino del Monregalese e precipitato allora a soli 480 abitanti dagli oltre 4000 del primo 900 quando era sede di mandamento con tanto di pretura e farmacia e adesso, ho appreso, addirittura a 296.
Ecco che allora pare più che opportuna quest’opera di memoria e anche, in certa misura, di tributo ai tempi andati!
In questo bel libro troverete la spontaneità e l’immediatezza del linguaggio parlato che a volte – e tanto più nella fattispecie, trattandosi di un cuoco – può esser un po’ maccheronico, con qua e là qualche anacoluto, ma è ben altra cosa dalla approssimazione dovuta a pensieri abborracciati, e infatti non tradisce la ponderatezza dei concetti ispiratori e la sedimentazione di lunghe e profonde esperienze e del conseguente sapere.
L’opera di Beppe è l’appassionata testimonianza in prima persona di un mondo purtroppo per alcuni aspetti, quali l’intima conoscenza e il rispetto della natura, passato.
Per esempio a pag. 91 del suo libro Beppe Prato scrive: “Gran parte della selvaggina che apparteneva alle nostre valli sparì dopo che gli abitanti delle borgate e case sparse, abbandonarono terre e casolari. La scarsità di viveri e la mancanza dell’uomo, costrinse volatili e roditori a trasferirsi in territori dove voci umane gli assicurassero l’esistenza. E di conseguenza dall’accidentale spopolamento della montagna, ne derivò anche la dislocazione della selvaggina, sia da piuma che da pelo. Le valli abbandonate lasciano un vuoto significativo che contrassegna la fine di un’epoca e, la selvaggina scomparsa, conferma la desolazione” (pag. 91).
Da ciò discende che anche le ricette che troverete vengono date in modo colloquiale, non da manuale e tantomeno “ex cathedra”, e partono sempre dalla profonda ed intima conoscenza delle materie prime utilizzate.
I ricordi, l’amore, lo studio e la sperimentazione dei singoli ingredienti locali sfociano in piatti che hanno il grande pregio della semplicità, come mi ha subito sottolineato un amico docente di lungo corso dell’alberghiero. Una semplicità che, rispettosa dell’indole di ogni ingrediente, ti permette di riconoscerlo e assaporarlo singolarmente pur ben amalgamato con gli altri; una dote che io forse preferirei definire naturalezza, nel senso che, amandola e conoscendola, a Beppe viene naturale rispettare la natura degli ingredienti senza smanie di snaturarli e/o prevaricarli e determina la semplicità sia dei manicaretti che del
linguaggio. Un errore diffuso è pensare che il semplice sia facile, il complesso difficile. Molto spesso è vero il contrario!  Già duemila anni fa Ovidio diceva: “La semplicità, è cosa rarissima ai nostri tempi”.
E pemettetemi alcune altre citazioni: “La semplicità è la forma della vera grandezza” –  “La semplicità è compagna della verità come la modestia lo è del sapere” (Francesco De Santis).
“Potrei vivere nel guscio di una noce, e sentirmi re dello spazio infinito”. (William Shakespeare).
“Qualsiasi sciocco può fare qualcosa di complesso; ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. (Pete Seeger- folk singer U.S.A.).
“La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere”. (Antoine de Saint-Exupéry autore de “Il piccolo principe”).
“O sancta semplicitas” (Johannes Huss)
E in “Pamparato a tavola” non troverete nemmeno un lontano accenno all’uso dell’azoto liquido o altre diavolerie molecolari, termini come coulisse o mirepoix e neppure indicazioni per impiattamenti in porzioni singole studiate più per la scenografia che la degustazione ma dei bei, naturalmente appetitosi, piatti conviviali.
Per finire due brevi aneddoti di cui son stato testimone.
Il primo riguarda il già richiamato legame col mondo rurale e il patrimonio di conoscenze e competenze perdute o cambiate: nel terzo dei quadernetti dell’Accademia avevamo inserito la ricetta de “la fonduta che riesce sempre” datami da Beppe ma, passato un po’ di tempo, un mio collega un lunedì quasi mi rimbrotta che, avendo provato a realizzarla, la fonduta non gli era riuscita. Assurdo!: la ricetta mi arrivava da fonte più che autorevole!.
Indagando sull’operato dello sventurato è poi venuto fuori che era stato utilizzato latte scremato, una cosa impensabile e impossibile quando il solo latte era quello direttamente attinto dalla vacca, ben altra cosa da quello odierno ancorché impacchettato intero che, oltretutto, ancor oggi, a termini di legge, non necessita di aggettivi specificatori.
Il secondo episodio, anch’esso dei primissimi anni 2000, riguarda il corso di cucina dell’università della terza età di Savona. Contattato dall’organizzatore e dal docente, un vecchio, famoso e signorile chef a riposo, conosciuti tramite la confraternita, intenzionati a venire nel Monregalese per la gita di fine corso mi venne spontaneo proporre come mete il castello e la stagionatura di Val Casotto e come ristoro l’albergo Alpi. I due vennero in avanscoperta, si compiacquero delle destinazioni ed anche del pranzo di prova fatto senza preavviso alcuno con il menù di un giorno qualsiasi della settimana. L’unico rilievo da parte del docente fu che avrebbe gradito l’inserimento di un vino passito o un marsala per accompagnare il tiramisù di paste ‘d meria (granturco). Rilievo che fu prontamente accolto con la promessa che si sarebbe provveduto in merito. Il punto dolente fu però l’accordo sul prezzo da pattuire: quanto richiesto venne giudicato troppo modesto, tanto da richiedere una lunga contrattazione alla fine della quale la famiglia Prato cedette aderendo a quanto proposto dai “foresti” ma… c’è un ma: alla fine del pasto ogni gitante venne omaggiato di un piccolo pacchetto di paste di meliga!
Queste ultime potevano essere ulteriormente valorizzate con la seguente ricetta “Variante del tiramisù” (pag. 137): “Sostituire i savoiardi con i biscotti di Pamparato limitandovi ad inzupparli di meno e, procedete come nel classico tiramisù. Se montate gli albumi e delicatamente li unite alla glassa, risparmierete uova e formaggio cremoso e, in più realizzerete un tiramisù da applausi”».

Giacomo Lissignoli

Al termine è stata la volta di Giacomo Lissignoli che è intervenuto con una importante relazione:
«Il libro non contiene solo ricette ma presenta un quadro storico-sociologico della vita agreste dei montanari negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, prima del drastico spopolamento che ha interessato le nostre vallate.
Un panorama realistico, preciso, minuzioso, con descrizioni dei lavori, dell’allevamento, degli spostamenti dei piccoli commerci, delle attività artigianali nella borgata Abrame in cui l’autore ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza.
Un’agricoltura di sussistenza, un’economia quasi curtense in un quadro di ristrettezze economiche, di povertà generale, di lavoro duro, di faticosi spostamenti a piedi, di estrema carenza di denaro (che proveniva solo dalla vendita di pochi prodotti sovrabbondanti) che, per di più doveva essere risparmiato per fare fronte agli imprevisti (morte, malattie gravi, ricoveri o interventi chirurgici in ospedale) perché non coperti da pensione o dal servizio sanitario nazionale come avviene oggi (es. a pag. 19 si racconta di una famiglia vicina di casa costretta a vendere 1 o 2 capi di bestiame per un imprevisto).
Un piccolo commercio riguardante per lo più castagne, funghi, animali da cortile e spesso praticato tramite il baratto (uno scambio di merci): 1 q. di castagne bianche per 10 Kg di farina di grano; 1 q. di funghi per un fagotto di granoturco e una latta di vino.
Le lunghe marce per recarsi a Garessio o a Bagnasco per pagare le tasse; la dura vita all’alpeggio in un casotto precario. La parola fame (a pag. 19) viene usata come presente in molti detti popolari per indicarne la rilevanza nella vita quotidiana; ma non deve intendersi come carenza di cibo ma come povertà e monotonia dei pasti quotidiani: castagne, polenta, verdure dell’orto e selvatiche, latte e minestre.
Il fastidioso disturbo dei vermi che colpiva i bambini e le diverse cure empiriche così ben descritte dall’autore tanto che, leggendo, mi sembrava di percepire l’odore acuto dell’aglio e quello pungente del petrolio. Nella narrazione non c’è il realismo cupo, tragico e rancoroso de “La malora” di Beppe Fenoglio, perché l’autore dice esplicitamente (a pag. 20) che pur vivendo in “condizioni disagiate” di non aver mai provato “né indegnità né rancore” e di non aver mai drammatizzato la situazione. Ma non è certo una visione idilliaca e tanto meno entusiastica di una realtà obiettivamente difficile!

Il rievocare il mondo di un passato di sessanta o settanta anni fa non risponde, a mio avviso, ad una scelta ideologica dell’autore, non è certo un invito a ritornare ad un’agricoltura di sussistenza che non potrebbe reggere in una realtà globalizzata, né un malcelato rigetto delle innovazioni tecnologiche per perseguire un “regresso felice” che alcuni utopisti inopinatamente auspicano. È invece, un’occasione per mettere in evidenza i valori presenti nei paesi montani e, in particolare, nelle borgate periferiche come Abrame. E cioè: l’amicizia, la solidarietà, l’uso comune degli attrezzi e servizi (es. i forni di borgata) e soprattutto la condivisione di gioie e dolori. A quei tempi nessuno nasceva o moriva in solitudine! Valori di cui tutti oggi sentiamo urgente bisogno per cercare di superare l’individualismo, l’indifferenza e l’insensibilità dei nostri giorni.
Questi intendimenti appaiono nell’Introduzione, che ha come sottotitolo “Il ritorno alle zolle” dove l’autore con espressioni appropriate, a tratti con accenti lirici, scrive: “Vedere nuovamente il sole nascere dietro gli stessi monti, assaporare il quieto vivere, compiacersi dell’amicizia di tutti, costituiscono i veri valori umani dai quali la vita riacquista senso e scopo”.
Quest’ultima sottolineatura mi pare costituisca la sintesi della finalità del libro di Beppe Prato.
In questo ambito è nato e vissuto l’autore, figlio primogenito di una famiglia contadina residente nella borgata Arame, situata all’estrema periferia del capoluogo, ai confini con il comune di Viola, ad un’altezza di 1.100 metri. Doveva essere un’amena borgata, popolosa, attiva e vivace, così come ce la descrive l’autore, specialmente nella stagione di caccia e in occasione della festa del patrono San Matteo, a cui è dedicata una cappella che tuttora sovrasta le poche case rimaste: “Si può dire che in quel ricorrente periodo l’Abrame fosse al centro del mondo”, invasa da cacciatori e da valligiani desiderosi di partecipare alle funzioni religiose e ai divertimenti popolari.
Verso la fine degli anni ’50, anche Beppe, come moltissimi giovani pamparatesi, lascia la sua borgata attratto dalla città. Si trasferisce a Torino come operaio FIAT ma, dopo pochi anni, ritorna alla terra natia “per una scelta dettata dal cuore”, per corrispondere agli stretti legami che ancora lo avvincono al paese d’origine, ma anche per un preciso progetto professionale e di vita a cui si è diligentemente preparato con la frequenza di corsi serali di una scuola biennale professionale per ristoratori e cuochi.
Beppe possiede alcune caratteristiche proprie della gente di montagna; è capace di lavoro assiduo, metodico e meticoloso, è sorretto da una calma e pacatezza nel parlare e nell’agire che, in parte gli è connaturale e in parte gli deriva dalla capacità di programmare le attività in un lasso di tempo più lungo per non essere pressato dagli eventi; è deciso e, quando vuole raggiungere un risultato, lo persegue caparbiamente: così ha fatto per diventare cuoco e nello stesso modo per scrivere e pubblicare il libro.
È aperto alle novità ed a molti elementi del sapere: ricerca, si interessa, legge anche pagine letterarie e poesie che, spesso declama a voce alta in cucina mentre controlla le pentole sulla stufa. Non a caso, a pag. 19, cita tre opere che ha letto e meditato: “Il mondo dei vinti” di N. Revelli, “La malora” di B. Fenoglio e “I miserabili” di V. Hugo.
È arguto nelle osservazioni, spesso ironico nelle risposte ed ha un carattere gioviale e una squisitezza di tratto che lo rendono amico di tutti. Quanti clienti dell’Alpi, prima di sedersi a tavola facevano una capatina in cucina per salutarlo; Beppe li accoglieva con cordialità e faceva loro assaporare gli “stuzzichini” appena preparati. Non a caso a pag. 11, è enunciato un principio basilare per un ristoratore e per un cuoco: “Si è sempre detto che la miglior salsa (che si possa offrire alla clientela) è un buon viso e una schietta cordialità”.
Pur se in parte mascherata da modestia e semplicità, denota sensibilità per il bello, per l’armonico, per il buono (come si evince dalle numerosissime ricette presentate nel libro) che è caratteristica propria di un artista. L’attività di cucina, infatti, è denominata più propriamente arte culinaria perché necessita, come tutte le manifestazioni artistiche, di ispirazione, di inventiva e di creatività che vanno esercitate con calma, riflessione e sperimentazione costante. Questi principi e queste modalità operative si sono sempre più affinate nel corso della lunga pratica di cucina ed hanno consentito a Beppe di diventare un vero “chef” capace di soddisfare i numerosissimi clienti ed amici e di dare notorietà all’albergo ristorante Alpi di Pamparato in cui ha operato per una cinquantina d’anni insieme al fratello Franco e alla cognata Mariuccia.
Permettetemi di aggiungere ancora un’ultima breve considerazione. Se vogliamo che i valori, le tradizioni, il patrimonio boschivo e immobiliare, i castagneti, i pascoli e le stesse ricette, ricordate nel libro di Beppe Prato siano fruibili in modo permanente, occorre che a Pamparato (ma il discorso vale per tutti i paesi delle vallate del Monregalese), si possano insediare famiglie giovani che siano in grado di assicurare un avvenire ad una comunità che, fra qualche decennio rischia di ridursi alla condizione di un museo triste e silenzioso. Giovani che, con intraprendenza, ottimismo e consapevolezza sappiano suscitare nuove iniziative e, nello stesso tempo, impegnarsi in attività assistenziali, nella pro loco, nel nucleo di protezione civile e nella stessa amministrazione comunale. Siano, cioè, un vero e proprio presidio del territorio. Ma perché ciò avvenga occorre che le istituzioni regionali e nazionali a cui compete legiferare e regolamentare modifichino sostanzialmente l’impostazione centralistica attuale. Non possono più sussistere norme indifferenziate che accomunano le modeste e precarie attività commerciali, artigianali ed agricole di un paese montano a quelle fiorenti che operano nelle grandi città o nella pianura. Non ci può essere un’imposizione fiscale uguale per chi vive in centri dotati di tutti i servizi e di opportunità lavorative e per chi per recarsi al lavoro, per frequentare le scuole superiori, per una visita medica specialistica in ospedale o per altre esigenze, deve percorrere decine di chilometri e impiegare molte ore del proprio tempo.
In sostanza occorrono urgenti provvedimenti perequativi a favore dei residenti e per l’insediamento di giovani famiglie in modo che sia assicurata loro una vita dignitosa, un sufficiente reddito e facilitazioni per accedere ai servizi non presenti sul territorio.
Mi auguro che ciò avvenga nei prossimi anni in modo che gli amministratori locali che ci saranno possano guardare al futuro con serenità e ottimismo perché finalmente per la loro popolazione si sarà avverato quanto simbolicamente indicato nello stemma del Comune: Habent panem paratum e cioè il pane ma anche il companatico!».

Mauro Servetti

Infine Mauro Servetti ha incentrato il suo intervento soprattutto nell’individuare le criticità del vivere attualmente in montagna.
Beppe Prato ha concluso gli interventi raccontando la genesi del libro ed invitando alla fine ad assaggiare alcune prelibatezze che aveva preparato per tutti i numerosi intervenuti all’incontro.

Beppe Prato

 

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